mercoledì 19 novembre 2008

Barlafùs, l'uomo inutile

Già in un paio d'occasioni (qui e qui) mi sono occupato delle vicissitudini etimologiche di barlafùs. Oggi, navigando nella rete mi sono imbattuto in una chiosa di Franco Brevini intitolata: Storia di barlafus, uomo inutile dal '600.

Niente di che, niente che non sapessi già: solo un'ulteriore conferma proveniente da una fonte diversa da quelle da me consultate in passato.

Nel testo, scovato nell'archivio on-line del Corriere della Sera, si legge tra l'altro:

Nella stessa accezione di oggetto vecchio e fuori uso cattanaj è registrato mezzo secolo dopo dall' Angiolini. Ma non è frequente fra gli scrittori lombardi, che preferiscono «barlafus». Vi rinvia anche il Cherubini, che registra la parola nella doppia accezione di «masserizia», «ciarpame», ma anche di «uomo a casaccio», cioè di sciocco, negligente, arruffone: «te set on barlafus!». Nel significato di «cianfrusaglia», «barlafus» lo ritroviamo fin dal Seicento in Carlo Maria Maggi, che se ne serve per satireggiare gli artifici con cui certe madri studiano di far apparire belle le proprie figlie: «Con tanti barlafus, e tant consciai / faen mangià par lasagn finna i strivaij» (cioè rifilano come fossero lasagne perfino gli stivali). Sempre il Maggi aggiunge un' altra voce a questa catena degli oggetti desueti e di poco conto: «boltrigh». La introduce nei versi che accompagnano un involto di vecchie cose inviate alla figlia monaca che sta allestendo una mascherata di Carnevale: «Barlafus e boltrigh; ma brutt o bij / fei scusà par la vosta mascarà».

A questo punto direi che di barlafùs (o barlafus, senza accento) si sa proprio tutto: quindi chiudo qui il capitolo etimologico.

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